Dio è donna e si chiama Petrunya

petrunya

Titolo originale: Gospod postoi, imeto i' e Petrunija

Diceva il poeta che la vita è sventura. Vero, soprattutto se nasci dalla parte sbagliata del mondo, in uno di quei paesi germogliati sulle macerie delle guerre jugoslave, e oggi hai 32 anni ma ne dimostri 42, come ti senti dire durante un colloquio a cui hai avuto accesso previa raccomandazione. In un momento storico in cui la realizzazione umana è fatta coincidere con quella professionale e non c'è colpa più grave della disoccupazione, il lavoro non si trova, perché per qualsiasi mansione è richiesta un'esperienza pregressa destinata a rimanere negata e tu, dalla tua, hai soltanto una laurea in Storia. Per ultimo, ma non ultimo, sei una donna e “sei anche brutta”, così ti dice chi ti sta esaminando, sentendosi in dovere di chiudere il discorso aggiungendo: “Non ti scoperei mai”. È questa l'esistenza di Petrunya, che la regista sceglie di raccontarci evitando però qualsiasi forma di querulo vittimismo, preferendo mostrala come un'anomalia di sistema che attraverso un gesto, del tutto immotivato (tuffarsi in acqua, nel giorno dell'Epifania ortodossa, per recuperare, prima degli uomini, il crocifisso gettato nel fiume dal sacerdote al termine della processione), fa tremare le fondamenta di un ordine sociale ormai anacronistico, che si regge sulla superstizione della supremazia machista e paternalista. Petrunya è l'inconcepibile capace di aprire una via di fuga dall'inevitabile: scatena disordini, crea problemi, costringe a mettere in discussione l'idea che i giochi sono già fatti e che non avrebbe alcun senso cercare di migliore le cose adesso.

 

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